V Domenica di Pasqua C
V Domenica di Pasqua C

V Domenica di Pasqua C

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli:

se avrete amore gli uni per gli altri».

(Gv 13,31-35)

Nel versetto che precede il nostro brano evangelico viene riportata l’uscita di Giuda dalla comunione con Gesù e i suoi e si sottolinea: “Era notte” (v. 30). Gesù spiega quello che sta succedendo in quella “notte”: la sua glorificazione. La partenza di Giuda segna l’inizio dell’ORA di Gesù, come è chiamata nel vangelo di Giovanni. L’Ora di Gesù è il mistero pasquale che culmina con la sua risurrezione. Il primo accenno all’Ora, come non ancora giunta, è in Gv 2,4 (poi: Gv 7,30; 8,20). In 12,23 se ne parla in prospettiva immediata: “È giunta l’Ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. Dal capitolo 13, Gesù dice che si sta realizzando, in particolare dal momento in cui Giuda dà l’avvio alla sua Passione con il gesto del tradimento che si attua nella notte, cioè nell’esclusione volontaria, nell’allontanamento dalla presenza di Gesù. La Luce rimane dove è Gesù. Ma Egli afferma che proprio con l’inizio di questa notte, mentre all’apparenza e agli occhi del mondo c’è “l’impero delle tenebre” (Lc 22,53), comincia ad adempiersi la glorificazione sua e del Padre. Cosa si intende per “glorificazione”? La gloria (doxa in greco e kabod in ebraico) non è trionfo esteriore e spettacolare, ma è la poderosa, efficace, influente incisività della presenza del Dio trascendente in mezzo all’umanità. Ciò che, nell’Antico Testamento, viene espresso con le immagini di tuoni, lampi, dense nubi e rumore assordante (Es 19,16); un’esperienza sconvolgente, insomma, che non lascia nessuna cosa al suo posto. Però quanto più è imponente il peso della Gloria divina che si manifesta, tanto più invisibile, incomprensibile e ineffabile è il suo mistero. Più Dio è presente in modo massiccio, più è difficile vederlo e comprenderlo. Il Peso schiacciante della gloria divina è nella Croce di Gesù. Lì è Dio. Lì Dio è scandalosamente presente, ma in modo oscuro per la nostra mente carnale: “Noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23).Tutti i momenti della Passione-morte-risurrezione di Gesù hanno lo stesso peso specifico di gloria. Hanno anche lo stesso potenziale di vita divina nel quale qualsiasi uomo si può immergere in qualsiasi momento della storia. Per questo l’evangelista scrive: “Dice Gesù”, ponendo il verbo al presente. Quell’evento, la sua glorificazione, che già si è attuato storicamente, viene pronunciato da Gesù su di te ogni volta che leggi queste parole. Durante l’adempimento dell’Ora, Gesù si stacca dai suoi (v.33). I discepoli non hanno ancora la capacità di seguirlo nella sua glorificazione. In un primo significato, Gesù sta predicendo l’abbandono vigliacco dei suoi. Però li sta anche giustificando: non possono partecipare alla sua glorificazione, perché è qualcosa che compete in primis a Lui, che deve portare a compimento la missione per cui è venuto sulla terra. Precedentemente Egli aveva detto agli ottusi Giudei parole simili: “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire” (Gv 8,21; 7,33-36). Qui l’incapacità è radicale e irreversibile perché proviene dall’incredulità (Gv 8,24), invece i discepoli sono impossibilitati solo momentaneamente.Intanto Gesù consegna ai suoi l’amore (agape) e comanda che non se lo tengano stretto, ma che diventi oggetto di scambio. Bisogna farlo circolare. Rispetto ai comandamenti anticotestamentari (“Ama Dio e il prossimo”) abbiamo forse ottenuto uno sconto (uno al posto di due o di dieci)? Il cambiamento è sostanziale, altrimenti Gesù non avrebbe detto che si tratta di una nuova legge. Prima di tutto c’è la reciprocità. È questa che crea la comunità, la Chiesa. Nel comandamento antico il soggetto ero “io”. “Io” amo Dio; “io” amo il prossimo. “Io” do all’Uno e all’altro ciò che devo. Gesù dice che i cristiani l’amore se lo devono scambiare, cioè, dare e ricevere, senza renderlo stagnante, senza che ci sia chi solo dà e chi solo riceve. Non si dà come l’elemosina, non è assistenzialismo. Anche chi riceve è chiamato ad amare. È questa circolazione di amore che caratterizza i cristiani. Dunque, il discepolo di Gesù non è pago fino a quando non rende l’altro capace di amare, di ricambiare la sua donazione. Poi cambia la misura. Nell’Antico Testamento “io” ero la misura. “Io” amavo Dio con tutte le “mie” forze, amavo il prossimo come “me stesso”. Con Gesù veniamo completamente decentrati: la misura è Lui. “Amatevi reciprocamente come io vi ho amati”. È Gesù che ama in me e attraverso di me. Ma come Gesù ha amato i suoi? Come ci ama? Personalmente: conosce le sue pecore una per una e le chiama per nome (Gv 10); gratuitamente, senza motivo e senza condizione previa. È regalo, puro dono. Infine, l’amore di Gesù è essenzialmente perdono. Senza perdono l’uomo non può vivere né il suo rapporto con Dio, né quello con gli altri uomini. Il perdono è la vita dell’amore, il suo respiro. È quello che Dio-Gesù sa fare meglio: perdonare. Sempre. Tutti. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.

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