Farsi prossimo
(Lc 10,25-37)
Gesù era pieno di esultanza nello Spirito Santo, contagiato dalla gioia dei suoi discepoli, i “piccoli” (v.21), che erano tornati a lui dopo aver evangelizzato per la prima volta e aver visto la potente salvezza del Messia estendersi nel cuore degli uomini. Gioiva perché il Padre aveva reso partecipi del suo disegno di amore questi poveri, questi piccoli, che erano pure piuttosto ignoranti, anziché i sapienti e i dotti conoscitori della Legge di Mosè. Ma ecco che proprio uno di costoro, un “dottore della Legge” lo interpella, con l’obiettivo, però, non di entrare in comunione con Lui, ma di tentarlo, di metterlo alla prova. Gesù gli risponde piuttosto sbrigativamente, con una controdomanda. L’esperto, però, non demorde e dà l’opportunità a Gesù di metterlo con le spalle al muro.
La domanda che quest’uomo colto fa a Gesù è quella tipica del discepolo giudeo che si rivolge al suo maestro: «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Che cosa devo fare per meritarmi il paradiso? I discepoli di Gesù stavano entrando alquanto faticosamente nell’ottica della gratuità del Regno di Dio e l’avevano appena annunciata. Tutti gli uomini sono chiamati alla comunione col Padre, tramite l’adesione al Figlio. Ma per gli ebrei questa è una prospettiva incomprensibile: essi rimangono legati alla prassi, al fare. La loro Legge insegna cosa fare, come fare la volontà di Dio; quali norme e quali precetti sono da osservare per guadagnarsi il paradiso, che diventa, non dono, ma premio del proprio agire. Gesù risponde rimandando alla supposta conoscenza che un dottore della Legge dovrebbe possedere. Lo scriba risponde correttamente, dando la sintesi del comandamento dell’amore da donare a Dio e al prossimo. Dunque, c’è uno spiraglio nel suo cuore. Non ha snocciolato davanti a Gesù tutte le centinaia di norme e derivati che, sicuramente, conosceva a memoria, ma è andato al nucleo spirituale, al cuore di tutto l’Antico Testamento. È il comandamento dell’amore, che coinvolge tutta la persona (cuore, sensibilità, forze, intelligenza) e la proietta verso due punti di riferimento: Dio, amato sommamente e il prossimo, la persona più vicina (Dt 6,5; Lev 19,18), amato come la mia stessa carne. Allora Gesù gli dà una risposta più condiscendente, ora che è riuscito a fargli pronunciare la parola magica: amore. «Esatto! Fa questo e vivrai».
Il dotto non si dà per vinto. Voleva mettere alla prova Gesù, invece era stato sottoposto lui a un esame! Si sente in dovere di giustificarsi: d’accordo, si sa cosa bisogna fare: amare. Ma amare chi? Dio, va bene. Ma il prossimo? Chi è? Questo era un altro problema per i giudei, dibattuto tra i dotti: fin dove si estende l’amore al prossimo? Per l’Antico Testamento il prossimo è il connazionale, membro del popolo di Dio, e anche l’immigrato correttamente integrato, in regola col permesso di soggiorno (Lev 19,33-34). Ma ai tempi di Gesù la cerchia si era ristretta: il prossimo è il membro del proprio gruppo religioso (farisei, esseni, zeloti, …). La nuova domanda offre a Gesù lo spunto per un salto di qualità. Con una parabola egli punta il dito sulla piaga della categoria di persone grette e legaliste, incapaci di uscire da sé stesse e di aprirsi alla compassione. Uscire da sé stessi. Essere compassionevoli. Sono gli atteggiamenti, le azioni, il fare del Padre e di suo Figlio Gesù. È l’agire di Dio, che risulta incomprensibile a chi è troppo immerso nelle norme e nelle casistiche, a chi pratica un culto sterile e separato dalla vita. Infatti, il problema del sacerdote e del levita, assidui frequentatori del tempio, profondi conoscitori delle norme di purità legali, è la loro chiusura e impenetrabilità rispetto all’urgenza della situazione: essi vedono l’uomo estremamente e palesemente bisognoso, ma passano oltre. Il samaritano, invece, un bastardo ed eretico passa accanto al malcapitato, gli si fa vicino, più vicino, prossimo. Si accorge di lui e lo vede, non gli volge solo uno sguardo fuggente. Ma si ferma. Anzi la compassione, la misericordia che muove le sue viscere, lo costringe a fermarsi. Rimane avvinto dalla sua sofferenza, proprio come Dio che non può non muoversi a compassione per il male dell’umanità. Gli fascia le ferite, come faceva Gesù, curando i malati di ogni genere che incontrava e i peccatori. Disinfetta le ferite con il vino buono, le lava. Come farà il Figlio di Dio con il suo sangue. Lenisce il dolore con l’olio dello Spirito Consolatore. Lo carica sulla sua cavalcatura, al suo posto. Lo rende partecipe dei suoi beni. Gli procura una dimora e un luogo di riposo. E… continua a prendersi cura di lui, fino al suo ritorno. Quando lo prenderà con sé, nella sua gloria. A questo punto, forse, il dottore della Legge avrà capito che lui era quel poveraccio raccolto ai margini della strada in fin di vita e che solo accogliendo le cure del compassionevole e misericordioso Figlio di Dio poteva raggiungere il suo Regno e la vita eterna.